lunedì 29 aprile 2019

VERSI STRAPAZZATI

Meticolosamente osservavo il mio percorso
scandagliando le interiora di un pallido animale,
scavato l'interno dell'Eisberg
cercandone l'anima, scoprivo
che non di sabbia fosse pieno il cuore,
né d'acqua, né di veleno, ma di purissimo sangue
stremato
da innaturale fatica.

Il fulgore di un manto di cristallo,
il luccichío che durante la notte
il cielo, tutta la cupola, accende
di scintillanti otri, da cui scende
imperterrita vita cangiante e mobile,
tra mille sfumature e promesse,
in un percorso che sia prefabbricato
per volontà non umana, non terrena
con gocce squallide di sudore
dei mille e mille antenati
che si appropriarono un giorno
tutti insieme del misterioso
pianeta blu, ambito dagli dei
del tempo, e sempre amato,
i più fragili e ignavi,
i più devoti
dell'angusta civiltà brulicante di eroi
protervi e obesi, proibito era il digiuno
e folle esauste libavano
nei prati, apparecchiati a nobili cose,
mai sazi, mai incerti su intraducibili
conquiste, mai corrotti; e non si doveva
abbandonare nessuno al suo destino,
quale che fosse  il lignaggio e la scala 
sociale e il colore del suo partito,
e quello è il tempo in cui
il loro dio morì
lancinato da rimorsi di tutto quel
che aveva trafugato al suo popolo,
il popolo di dio, nel tempo in cui 
nessuno emerse dal buio per mostrarsi integro
alla moltitudine dei nuovi adoratori.

Da allora aspiranti maestri, moderni
costruttori di troni divini
si affannano intorno a quello antico,
noncuranti degli applausi 
-pochissimi-
e dei fischi -tantissimi-
loro lo accolgono già prostrati.

Ricostruire un percorso originale
basandosi solo su ricordi non suffragati 
da fatti, da foto, da documenti sicuri
e inoppugnabili equivale a raccontare storie
ai sordomuti dalla nascita, a chi nacque 
cieco, che mai conobbe un'idea: rimarrebbero 
a guardare nel vuoto con facce di pietra,
non crederebbero una sola parola, solo
ascoltando atterriti suoni inaccessibili,
documenti inattendibili, crudeli
nella loro validità ostile,
poco veritiera.
Eppure per me equivalgono al riavanzare
di meravigliosi fatti, intrisi di lacrime
e di scongiurati misfatti,
cresciuti sull'umidità della mia pelle più sottile
e indifesa.

Eppure ho da credere in questi miti
adoscenziali, che non ho inventato,
ma trovato solo spostando una tendina, un davanzale, sol liberandoli dal loro nascondiglio
dove io stesso li tenevo celati con tenacia.



12  aprile  2019



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venerdì 26 aprile 2019

RIMPIANTO DI TEMPI REMOTI


Fermo in questo mio riposo
da morbida febbre
provvedo subito a spremere dai muscoli
le esigue
forze rimastemi,
stolto rimpianto di tempi remoti,
inutili scrosci di applausi
che più nessuno promuove.

Soltanto chi è forte sopravvive imperturbabile
di fronte ad un proscenio inutilmente
spalancato sul vuoto di una
sala deserta. Molti scappano urlando
vanificando il proprio talento
in un mare di disattenzione
e di sarcasmo, perché la gente gode
per l'ex eroe caduto nella melma
che vi si dibatte, nemmeno fugge, solo
frigna come un bambino spaventato.

Tutti vorrebbero sghignazzare, ma sanno
che un soffio di umana viltà
quale è uno sberleffo, peggio, molto 
peggio appare di un silenzio
di morte che all'infinito muto
si protrae.

Il gelo della sera che già si intravede
attraverso palpebre asciutte, non aiuta,
non giudica, non viene toccato da calore
umanizzante. Non resta
che spegnere la luce e cercare
disperatamente di trovare
il sonno antico, innocente e incolpevole,
lo stesso che cercava mia madre
nel volto disteso del suo bambino
che -a lei soltanto- appariva infelice
e strattonato da vicende a lui nemiche.



11  aprile  2019



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domenica 21 aprile 2019

FRAMMENTI DI UNA STESSA IDEA

Cadde dal cielo a notte fonda
-nessuno vide da dove-
il misterioso oggetto che perforò
la coltre di nubi
e si fermò nuvolosamente intorno alla
mia testa annuvolandola;

cambiandone l'orientamento e la nobile funzione
creativa, massimamente là dove il pensiero
elabora le sue radici feconde, i suoi slanci,
l'essenza di tutto ciò che liberamente palpita,
tutto quello di valido e costante che il tormento
quotidiano aiuta a concepire.

Nessuno si dispiaceva della mia assenza,
forse non ero ancora mai esistito,
ero ancora disperso nell'aggrovigliato
ingorgo di traiettorie che esulavano
da ogni forza creativa,
da tutte le emozioni, da ogni inganno.

E io che volevo qualcosa di molto leggero
ad accogliermi mi ritrovai a bocca asciutta,
come dire a brache calate e il volto scarico
privo di sensazioni ancora ignote
al lumeggiar del giorno nuovo
e chi doveva accorgersi di me non se

ne avvide, ferma restò la cosa, in disparte
da ogni allucinazione, privo com'ero 
di voglia di tentare, di osare e pronto
all'ennesima gaffe, nel momento in cui
qualcuno avesse decretato la fine
dell'improponibile scontro.

Eppure qualcuno nella scarsa luce
dell'alba pregava perché avvenisse in fretta
il ritrovamento delle mie membra ancora
intatte, pregne di tutti gli odori sconosciuti
agguantati durante l'incauto volo
di avvicinamento, volto ad ogni risposta,

pronto a venir usato per ogni dove,
per tutte le infinite strade di dio,
o di chi in suo nome finge di adoperarsi,
ricambiando i doni squillanti ricevuti
in partenza per il primo itinerario
per cui adesso mi rendo conto

di chi dovevo aiutare, di quale terra
di quale generazione d'avanguardia
dovevo scavalcare per toccare il traguardo
della mia impresa da produrre
onde portare il seme creatore del mito
imperterrito nel guazzo di colori

e di forme atte a rivoluzionare
ciò che una divinità nuovissima, ancora
inesperta, ma già sazia di purissima
forza creatrice avrebbe potuto
lasciar sciogliere nell'aria circostante
liberandosi delle pressioni retroattive

a perenne miglioramento della specie
umana di cui popolare il sistema
planetario più recente.
Cosa che spero di poter portare a termine
prima che questa esistenza di cui godo
e mi illumino si estingua.



07  aprile  2019



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AUGURI

 A  TUTTI  AUGURO  UNA

FELICISSIMA  PASQUA

VINCENZO  IACOPONI


mercoledì 17 aprile 2019

CREDEVO DI AVERE SOGNATO


Credevo di avere sognato,
e avevo sognato.

L'uomo che mi seguiva forse
mi perseguitava:
mi annusava gli alluci e le dita dei piedi,
i pollici e le dita di entrambe le mani,
poi ero io a seguir lui,
brevemente.

Paesaggio piatto e senza sorprese:
monti, mari, fiumi, alberi,
una serie quieta, incolore, senza tremor di vento,
ma le cime di ogni albero
non indugiavano
a cercarne l'alito
che faceva vibrare i tronchi e le radici
insieme al muschio atterrito
dal silenzio, ma nessuno
si preoccupava del terrore nuovo
come fosse un'abitudine strana,
consueta a queste
latitudini.

Un'onda anomala
si avventava sull'orizzonte:
restava là in fondo.
Non me ne curavo,
nessuno dava l'aria di curarsene.
Si viveva indifferenti
agli eventi
monotoni onda dopo onda e si aspettava
con fiducia che tutto si placasse,

che il sogno finisse.

Era ancora buio e silenzio quel mattino
quando tutto finì.



01   aprile   2019



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domenica 14 aprile 2019

UNA STORIA


L'uomo morto era bello,
sembrava respirare in silenzio.
Da vivo mai era così bello e placato.

Brusco, sfuggevole,
visse la vita scansando genti,
evitando strade assolate,
non rispondeva ai saluti.
Non chiedeva favori.
Non ne faceva a nessuno.

Ogni sera
prendeva la strada dei monti.
Qualcuno raccontò di averlo veduto
scomparire nel folto
del fogliame del bosco.
Nessuno conosceva il suo rifugio
durante le notte.
Nessuno voleva saperlo.

Un mattino sul tardi
si sparse la voce
che l'uomo era stato ammazzato.
Con un grosso bastone 
insanguinato,
lasciato accanto al cadavere
qualcuno gli aveva spaccato il cranio.

Gli scalini della parrocchia
erano lordi di sangue
e pieni di morte.

Tre giorni per l'autopsia.
Procura attivata.
Al funerale solo le due suore
della parrocchia.
Sepolto nella nuda terra.
Una croce di legno.
C'era scritto: SCONOSCIUTO.

Nessun documento esisteva.
Nessuno conosceva il suo nome.

Un mese dopo un ubriaco
disse di averlo visto nel bosco.

Nessuno credette a un vecchio ubriacone, 
ma nessuno andò a verificare.

Qualcuno ricordò che lo sconosciuto
dopo morto era bello,
così per statistica
ma anche per farsi notare
contento di una platea di tre mocciosi.


28  marzo  2019


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martedì 9 aprile 2019

LA DOMANDA CUI NON DIEDI RISPOSTA

In un torrente montano
vidi fulgida acqua
scorrere con grande clamore.

"Meraviglioso" pronunciai, già innamorato.

Arrivato alla soglia 
del mare,
guatando basso in fondo all'orizzonte,
vidi affondare i rossi, i rosa,
gli arancioni e i viola dell'ultimo
tramonto sfavillante.

"Fantastico" dissi, quasi già prono.

Poco lontano, sommersa dai verdi incandescenti
di un pino di mare,
piangevi tu
tutte le tue lacrime.

"Perché? Chiesi. Sei così bella"

Non rispondesti, perché tu avevi visto me
per prima, già mi amavi
e temesti che io non mi sarei
fermato mai.

È ancora lì il pino marittimo,
verdissimi squilli verdi 
lo esaltano.
Ieri passeggiammo fin lì.
A me veniva da piangere.

"Cosa hai visto?" Chiedesti, 
ma non ti ho potuto
rispondere.



26  marzo  2019


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venerdì 5 aprile 2019

QUANDO IMPARAI A PIANGERE


Questa notte
ho imparato a piangere.

Il dolore invece
qualcuno lo aveva spalmato fuori
e dentro di me prima che nascessi,
e poi brevi sorsate ogni tanto ne bevvi sempre
e qualche boccone al giorno
senza lunghi intervalli.

Il crudele destino di tutti i maschi invano
attesi femmine, come tali allevati,
con boccoli e vestitini color rosa.

Da  questo la faccia feroce, le parole 
scurrili, gli scherzi volgari,
i pessimi istinti lasciati liberi di azzannare
tutti, e niente lacrime,
territorio elettivo delle femmine.

Da cui le punizioni, ore al buio nella stanza sotto
la soffitta, e le sberle per i brutti voti
chè non studiavo mai per ripicca
alle violenze.

Ma stanotte il mio amatissimo gatto
è morto avvelenato e me ha invaso il pianto
disperato di chi la crudeltà del mondo
inchioda ad un atroce destino.


25  03  2019


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lunedì 1 aprile 2019

SE CONTO I GIORNI


Se conto i giorni in cui la lingua serviva
a narrare storie quotidiane a me capitate,
oppure i dialoghi di ogni giorno delle nostre bambine,
meravigliosi come tu li traducevi ad ogni mio
rientro alla sera, dove noi due ridevamo
come alle comiche di Stanlio e Ollio,
mi vien da piangere: troppo poco tempo
lasciato a quelle gioie irripetibili.
Troppo interessati eravamo al lavoro, ai clienti
che non pagavano, che reclamavano,
che pretendevano recapiti immediati
delle merci; quel paio d'ore lasciate ogni
notte per salire in soffitta e tentare
di dipingere uno o due quadri. Mi viene da piangere
adesso per quanto tempo abbiamo passato
a non intenderci, a non esplorarci, a non amarci.
Eppure era così semplice starcene serenamente
ad attendere che una mia mano sfiorasse una tua,
un mio ginocchio toccasse un tuo
e ad ognuno il cuore rimbombasse dentro.
Sudore, preoccupazioni, rischi ad ogni chilometro
di strada, con qualunque tempo ma eravamo
felici e gai, disfatti dalla fatica eppur contenti,
ed ogni sera attendere quei momenti
di passione, dove nessuno chiedeva e tutto dava,
così, come veniva, esattamente come la prima
volta, quando dovemmo nasconderci,
tu per la vergogna, io per la sorpresa,
ché non credevo di riuscire mai a prolungare
la tensione in spasimo e poi alla fine
in gioia liberatrice, in paura poi, quasi terrore
fino alla fine del mese. E poi rifarlo
e di nuovo un nodo scorsoio intorno al collo 
e di nuovo quel paradiso, e di nuovo quel cappio,
ma nessuno di noi due si sarebbe rifiutato
allo spasimo del fine mese.
Angoscia e gioia, alternati come passi di danza,
come lingua che batte all'interno della corona di denti
come respiro assetato di scoperte sempre nuove.
Oggi si dovrebbe rimpiangere quei tempi, ma non
mi viene, non ci riesco perché nulla perdemmo
di quei minuti, nulla sprecammo e tutto resta divino
e immobile nella nostra storia, che scrivemmo ignari
a quattri mani in un linguaggio nuovo,
inventato da noi, che solo noi intendevamo.

Anche gli ultimi nostri nipoti, i due gemelli di undici
anni, divennero più alti di noi che mai fummo piccoli.
Ogni domenica tu lavori quasi solo per loro,
senza mai lamentarti, impasti e metti in forno
uno strudel di mele e pinoli, una crostata
con marmellata di mirtilli, l'unico modo,
ne convengo, per staccarli dai loro cellulari.
Soltanto il lavoro rumoroso delle loro mandibole.
Il miracolo avviene sotto i nostri occhi:
silenzio glaciale, poi un paio di grugniti di piacere,
e le nostre poltrone sono le loro per circa tre ore.



12  marzo  2019


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