martedì 30 ottobre 2018

CARI AMICI VI SCRIVO....

....per dirvi che da domani mi assenterò dal blog per cinque giorni, cioè fino a lunedì incluso. No, non vado in vacanza, ma entro nella clinica oculistica del St. Vincentius Krankenhaus.
Ci sono già stato ieri dalle nove alle sedici suonate.
Sono uscito che non vedevo una beata mazza: vedevo tutto lilla e verde. Mi avevano ingrandito la pupilla che si vedeva tutto nero con un bordoncino di un millimetro del mio bel marrone. Fortuna che era nuvolo e dopo subito buio, grazie all'ora legale; ma non sono riuscito a vedere bene Inter-Lazio. mortacci loro.
Dunque a parte questo non indifferente inconveniente, hanno scoperto una trombosi all'interno del mio occhio sinistro che mi toglie il 30% del visus da questo occhio.
Bisogna scoprire la causante della trombosi, con infusioni e poi curarla con iniezioni nell'occhio e forse alla fine col laser.
Speriamo non ci debba poi ritornare, perché questo 2018 mi ha proprio rotto er ca.
Ieri mi hanno fotografato dentro entrambi i due occhi, così vedevano tutte le venette. Una luce bianca fortissima come l'esplosione di una bomba e poi dopo vedevo solo lilla e verde.
Una nuova combinazione di Governo al posto del giallo verde attuale. Peccato che il lilla sia il colore del frociame, ma si sa che noi italiani siamo autolesionisti ad oltranza.
A me invece l'idea di tornare in un Ospedale anche se di eccellenza  fa venire er mal de panza.
Solo cinque giorni, mi fa il giovane medico specializzato. E te pare che so pochi? O volemo facce Natale qui drento?
Basta, non è un gioco e mi devo abituare all'idea.
Alla fine tra ospedali e luoghi di cura avrò passato più di due mesi dentro un letto di ospedale. Mettici la capocciata sul durissimo suolo tedesco; mettici l'infrociata con la macchina immolata al dio della vendetta, e guarda che razza di anno di cacca che è stato questo pour moi.
Non ve la prendete. Vi penserò. Poi vi racconto tutto nel mio prossimo post.
Vi abbraccio tutti. Ciao.  
  

mercoledì 24 ottobre 2018

VOCE DEL VERBO INVEIRE


Questa è la poesia che stavo scrivendo quando mi è venuta sulla punta della penna l'idea di scrivere il post che questo precede.
Avevo promesso a Daniele Verzetti di postare la poesia e adesso lo faccio.


La scala è buia, vedo appena i primi gradini
ma devo forzarmi a scendere, a scoprire
cosa ci sia là in fondo, perché il buio sale,
tra poco sarà intorno, sopra e dentro di me
e non mi darà più tempo.

All'alba tutto era semplice e bello
perché bevevo ogni cosa che mi veniva 
raccontata. Era tutto bello perché
io ero ignaro, non ero libero ma ero felice.
Adesso sono finalmente libero
perché ora sono consapevole e pertanto
sono così infelice.

Ho cozzato contro una muraglia
che mi camminava contro,
ho cercato di scavarci dentro con le dita
per tirarne fuori almeno un mattone,
ho sperato di trovare all'interno sangue
dei miei antenati, e invece
ho trovato solamente ossa di vittime,
urla di vedove, occhi spenti di bambini
mai nati, piste di guerrieri
in marcia guidati da apostati
e traditori, da puttane vestite da suore 
del preziosissimo sangue di Cristo,
prelati circondati da orfani
che avevano numeri attaccati sulla schiena
che indicavano l'ordine di entrata
dentro i confessionali, perché fossero purificati
per il loro olocausto.
Ognuno di loro liberava di ombre
la propria innocenza e immolava
la sua virtù su altari di putrefazione,
cullati da pastori che al suono di zampogne
imitavano quelli della grotta fatale
nel fetore dell'urina di un somaro
e delle feci di una mucca,
attendendo miracoli screziati di vizi e lordure
a imitazione ripetuta ogni anno
del loro padrone appena nato
e ogni anno rinato, ed ogni anno sbalzato
fuori dalla sua mangiatoia,
vituperato e osannato come chiunque
che fonda un nuovo partito rivoluzionario,
rischia la morte ogni giorno
per ottenere alla fine la gloria dei santi,
che non può più aiutare né redimere
perché già puzza di morte da un'eternità.

E io non sono in grado di credere,
né di pregare, di osannare né di bestemmiare,
condannando l'infame al ludibrio
delle genti che verranno,
più scaltre di me, più competenti,
più follemente innamorate del nulla
che brucia su tutti gli altari
ripudiati oramai dalle maggioranze
degli uomini, delle donne e degli animali creativi
che con suoni stentorei proclamano
la loro riconquistata libertà di scelta
e di espressione. Animali liberi
da vincoli e lacci, lanciati senza
più prudenza sulle praterie inviolate
ancora della loro incoscienza.
Tra canti e suoni osceni, fischi
e baldracche plaudenti distribuite su ambo
i lati del lungo percorso, dove scalciando
galoppano furiosamente beati
gli stalloni della moderna perdizione.

E noi ce ne restiamo inerti a guardare
le loro piroette, ad applaudirle, 
ad ascoltare le sgrammaticature delle
loro bestemmie di incerto conio,
mettendo un segno di consenso
con la Montblanc nuova di zecca,
emettendo fischi di approvazione
e dimenando i fianchi e il culo
che da loro pende flaccido e obeso.
Niente più potrebbe scandalizzarci
dopo che abbiamo fatto a gara
a chi pisciava per primo sulle acquasantiere
delle nuove chiese cattoliche, 
ovunque ne avessimo incontrate.
E su quel piscio quasi essiccato i nostri 
amici cospargono adesso acque sante e altre
pisciate fresche come fanno i cani
per marcare il loro spazio vitale.

Noi guardiamo, applaudiamo,
sghignazziamo e via di corsa alla ricerca
di nuovi stimoli, dimenticati i vecchi,
col cellulare nuovo nella tasca
posteriore dei pantaloni, che squilla di continuo
e ci avverte dei cambiamenti del vento:
avanti con prudenza, tutto calmo,
un polverone sul fondo ma sta
già cambiando direzione;
tu vira e noi siamo nuovamente salvi,
nella speranza che i nostri figli
crescano buoni pagani, come avremmo
voluto rimanere noi, e così sia.

E adesso vado contro me stesso, i miei principi,
il mio modo di scrivere già antico:
e quindi ripeterò ciò che ho detto all'inizio.
Ero felice quando credevo a tutto
quel che mi veniva raccontato,
il post mortem, gli dei impudichi
e improvvidi, le madonne piangenti,
le sante gementi e galleggianti sopra le miserie.
Non ero libero perché ignaro di tutto, ma felice.
Adesso che ho imparato e vedo dritto
davanti a me sono forse libero
ma infinitamente stanco e infelice.


Maximiliansau,  23 ottobre 2018


*****





martedì 16 ottobre 2018

NOI CHE INVENTAMMO IL POSTMODERNO

Ci bevevamo tutto quello che ci veniva raccontato. Parlavamo coi santi e la madonne in latino e qualche volta in greco classico; giocavamo a calcetto nel cortile dell'Oratorio con i nostri angeli custodi, coprendoci la bocca con una mano a ogni bestemmia che dicevamo perché se ci avessero sentito se ne sarebbero andati tutti quanti portandosi dietro il pallone che era il loro, benedetto e profumato d'incenso.
Noi conoscevamo tutti i motivetti sacrileghi, blasfemi e scellerati, ma ne accennavamo solamente una nota per poi guardarci tra di noi di sottecchi trattenendo la solita risata oscena, perchè don Italo B. non si accorgesse di nulla, ma lui ci puniva lo stesso perché le conosceva tutte a memoria le canzonacce sporche, tipo "con sta pioggia e con sto vento chi è che bussa al mio convento"
-Hai visto? Le sa proprio tutte, ma come farà lui che è un prete?
Ma poi capimmo: quando lo sorprendemmo una serata buia in borghese che usciva di nascosto dal portoncino sul retro della casa di Rosa Maria.
Succedeva poco dopo le bombe americane, pasticche nere che venivano giù come la pioggia quando c'è il temporale. 
Nella nuova classe eravamo tutti fuori corso, nel senso che avevamo tutti perduto almeno un anno o due dispersi tra boschi e campagne. Così a me capitava di stare nello stesso banco con Amleto P. che aveva quasi 17 anni e io ancora tredici. E allora io e gli altri mocciosi come me rimanevamo a scuola, ufficialmente per fare i compiti insieme, ma più che altro perchè Amleto ci faceva i disegnini e ci rivelava quei segreti che nessuno sapeva, nemmeno Gabriele che aveva a casa tre sorelle.
Così nel gruppo qualcuno di noi pose la domanda fatale: "Ci credete voi alle stronzate che racconta don Italo? Quella sui Vangeli e sulla Bibbia per capirci."
Lì, quel giorno, mentre Amleto ci spiegava quale fosse la differenza tra noi masculi e le femmine, sempre coi disegnini perchè Maurizio diceva che aveva visto lui che sua sorella ce l'aveva di traverso e non diritto lo spacco, quel giorno appunto tra un disegno e uno schiaffone a Maurizio, perché Amleto era un fusto incazzoso e Maurizio uno scassaminchia, un po' a tutti noi e a me in particolare, cominciarono a venire tanti dubbi sulla madonne e i santi, che pendevano in abbondanza da tutte le pareti di casa mia.
La conclusione dell'opera di disfacimento della pochissima fede mia avvenne in quarto ginnasio quando arrivò nella nostra classe Paola D.B., genovese ed ebrea, che durante l'ora di religione rimaneva in classe a fare compiti, ma ascoltava tutto.
Ora, Paola, debbo dire oggi che era di profilo come Dante Alighieri, ma dentro la testa aveva come minimo tre cervelli: mai incontrata una ragazza con tanta intelligenza.
E lei stava a sentire con sei orecchie -due per cervello e i conti tornano- quello che don Italo raccontava; per un po' non replicò, ma quando arrivò alla storiella del figlio di Dio tirò fuori dal suo armadio tutta intera la preparazione religiosa che aveva.
Iniziò un battibecco dove lei riuscì a ribattere argomento dietro argomento a tutto quello che diceva il prete, che, ad un certo punto, non riuscendo a tenerle dietro se ne uscì con una infelicissima battuta: "tu stattene finalmente cheta, ché non sei nemmeno cristiana e non hai il diritto di disturbare la mia lezione."
Allora tutti capimmo che Paola avesse ragione e il prete si era pisciato addosso.
Da quel momento una delle cose che ho intrapreso con maggior passione oltre a correr dietro a tutte le ragazze carine, è stato documentarmi sulla realtà della religione dei nostri padri e soprattutto delle nostre madri.
Ogni giorno mi capitava di grattare con le unghie quel muro spigoloso e tirarne fuori un mattone. Per me adesso è completamente abbattuto e sulle sue macerie non se ne può costruire nessun altro.
Ci devo aver messo anche abbastanza livore, me ne rendo conto, qualche settimana addietro nel mio post sull'argomento, ma non ho fatto altro che parlare in fondo della mia delusione, di essere definitivamente solo in questo angolo dell'Universo.
Perché l'ho rifatto adesso? Non sicuramente per pentimento, ma perché alcune sera addietro ho iniziato la bozza di una poesia, per accorgermi dopo un po' che non era affatto una poesia quella che mi brulicava dentro, ma certamente molta rabbia.
Ho chiuso la poesia ed ho scitto queste poche righe. Se non dovessero essere di vostro gradimento sappiate che ne sono spiacente ma continuerò imperterrito a pensarla così.

giovedì 11 ottobre 2018

VERSI UN PO' STANCHI

Quando tutto sarà finito
tu resterai la sola
a dare ombra e luce
alla mia casa.

Non vale che tu pensi di rifugiarti
in un angolo, so già quale,
ad aspettare che venga notte
per andare a nasconderti
nel tuo spicchio di letto,
raggomitolata e in lacrime;
non è così che funziona.
Farai come faccio io adesso,
come ho sempre fatto,
piantato a gambe larghe lontano
dalle pareti, nel mezzo
della stanza, come sul tavolato
di un proscenio
andando incontro al soffio
quasi sempre violento della vita.
Un piacere quotidiano,
una valenza
da sbandierarmi in faccia
come un monito continuo, un valore
aggiunto, una profezia.

Così da giovanotto e così adesso
che incomincio a imparare
qualcosa. Lo farai anche tu.

Io, per dirti la verità, cerco sempre
il semplice, garrulo tempo dell'estate
di quando ero ragazzo
che adesso non c'è più.
Tu dici che malgrado gli sforzi
di reggermi a galla sono io quello cambiato,
e forse hai ragione:
ho macchie rosse e ghirigori sugli occhi
e tutto quel che vedo
è soffocato in trasparenza laggiù.
Mi viene il fiatone se faccio
le scale un po' di fretta
così ho una scusa per sedermi 
sul divano e cominciare a scrivere.

Non è una scusa per non parlare con te
è un bisogno, un impulso, una passione,
una voglia di esprimere vita,
la volontà di esistere, una specie
di tormento che mi mette fretta
di scrivere una parola dietro l'altra
per un discorso che non vorrei
cessasse mai. Come tante volte ti ho detto
arriva il momento in cui
devi mollare gli argini perché
l'ondata che ti pressa da dentro
è troppo forte, è spietata.
Arriva per tutti
e allora non sta a te guardare
come deborderà quest'acqua lercia,
se in un ordine prestabilito
docilmente
oppure in modo tumultuoso.
A te è dovuto solo lasciarla
libera di uscire e di seguire
un corso nuovo, tutto suo.

Vorrei che tu ricordassi queste
parole quando tutto sarà finito,
magari di notte nel tuo angolo di letto
mentre che piangi.


Maximiliansau, 11 ottobre 2018

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