lunedì 20 novembre 2017

MURFICO E IMPEROCCHESE


Alcuni giorni fa ragionando sul blog di Marina Guarneri, il taccuino dello scrittore, per dare forza ad una mia teoria ho riesumato un modo di scrivere che usavo ai tempi del liceo. Lo avevo chiamato murfico e ne andavo particolarmente fiero, tanto da averlo adoperato in alcuni miei temi, col dovuto rispetto per il mio professore molto conservatore, di cui però già avevo aggirato le difese obbligandolo a mettermi dei nove per temi in classe letterari o storici poco importava, che io svolgevo sotto forma di racconti. Costretto nel senso che erano scritti troppo bene e rimanevano col racconto nell'ambito del tema voluto.
Marina è troppo intelligente e preparata per fare una piega, tanto più che già conosceva il gliglico di Julio Cortázar. 
Nei commenti salta su Luz, blogger col suo io, la letteratura e Chaplin, che facendo riferimento a Fosco Maraini mi invitava a scrivere ancora in murfico.
Naturalmente ho immediatamente esaudito quel desiderio, che era anche il mio, perchè il murfico mi incolla ancora alla pagina, mi riporta indietro ai tempi beati del liceo e già ci avevo scritto in non so più quale blog un paio di poesie.
Ne cito una sola frase per lasciarmi capire

Katiloffando came nen los kotriones de la rubenta  orcheqquando al cupido pesiquamente ardilloso s'impriolò di biavida lacca.

Una cosetta così. E oramai mi era entrata nella penna e nella tastiera fuoriuscendo dalla capoccia mia. A quel punto però mi risovvenne che non solo di murfico vivevo, ma addirettura in quella meravigliosa stagione avevo iniziato a scrivere in imperocchese, diverso dal murfico, ma altrettanto stupefacente, al punto che dopo aver iniziato a scrivere poesie in quel linguaggio, che recitavo io stesso in classe con la voce di Ruggero Ruggeri il maggior attore teatrale dell'epoca, mi decisi, sollecitato dallo stesso professore diventato oramai un mio ultras da curva di stadio, a scriverci una commedia, che rappresentammo nel teatro Traiano a Civitavecchia.
La gente non sapeva se ridere o piangere, ma la serata era a scopo benefico e ne uscimmo tutti vivi e tra gli applausi.
Ieri sera sul tardi ero in apnea sprofondato nei miei ricordi ed ho scritto la mia ultima poesia in imperocchese.
Non vogliatemi troppo male, por favor, anche io ho tra i miei lati deboli quelli proprio deboli forte. Io comunque mi ci sono divertito alla memoria.

SQUINTERNANTE  IMPEROCCHESE  ARGUTO

La rimpinguata stoppa
s'arrovellava nella scarnita cappa
argomentando enfatiche scansie,
brusche effigiando allocuzioni
acquatiche a mo' di meritevoli
scalinate dalla sostanza
illuminata e bifora per la bisogna.

Volgevasi le gote da groppa a groppa,
piovasco il calibro de la sempreviva
calorosamente succube di una
trivella, biascicando notturne
preci ampollose di condimenti
allucinanti, a guisa di bretelle
caledoscopiche nonché raffinate.

Mungevano vacche bianche e variopinte
il proprio latte, svernando con
le brache a tracolla, cavernose
muggendo stancamente nei labbroni
dei mitili abbandonati
al vento della notte.

"Sorgi Petrillo e se vuoi essere
il primo della classe, dillo".
Fu il coro sottopassato dalle poppe 
argute delle donne minute
che cercavano motti altosonanti
per sbatacchiare ortaggi e fuorviare
melanzane brucate a tutto spiano.

S'avvilupparono insieme tutti quanti
gli sbattichiappe e si leccarono i baffi
ciondolando dai rami nord e sud
del lago Trasimeno in piena
rivoluzione astrale, mentre
il gorgo  si umiliava in processi
dispendiosi. Amen, disse il prete.
Fottiti, rispose il sagrestano.

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Poesia avveniristica numero uno
20 novembre 2017

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giovedì 9 novembre 2017

FINALE DEL CAPITOLO 15

Ho pensato di mostrare il modo di raccontare del mio personaggio, una pagina del SUO romanzo, e poi in un secondo momento, in un post immediatamente successivo, un brano in cui si possa vedere la differenza tra i due modi diversi di scrittura. 
J.M., il protagonista del romanzo incompiuto, riceve la visita nella sua stanza di ospedale, di quattro emeriti sconosciuti , invitati da sua moglie, la bella Elena, che gli proporranno qualcosa che a lui non garba. 

Arrivarono tutti e quattro venerdì mattina i pokeristi mentre Jacopo non aveva ancora finito di sorseggiare il suo caffellatte. Entrarono silenziosi e sorridenti: la ragazza per prima e gli altri tutti dietro a lei in fila indiana. Aveva gambe lunghissime Pik Queen e mani affusolate da pianista o da ricamatrice; Jacopo le immaginò mentre mescolavano e distribuivano carte.
-Sono Elisabeth Starkstrom, disse con una bella voce da contralto, ma può chiamarmi Liz. Lui è Hansi Ziegelstein, Herz King, lui Mario Herzog, cioè Kreuz As e questi è il nostro capo Joachim Thielke, che per noi tutti è Karo Jack.
-La sua signora ci ha detto che lei è un accanito e competente giocatore di poker, disse Karo Jack; posso chiederle qual'è il suo gioco?
-Mia moglie ha dimenticato di aggiungere che sono ormai più di quindici anni che non mi siedo a un tavolo da poker, comunque giocavo a qualsiasi tipo di poker, ma la mia preferenza andava alla teresina americana.
-Giocavate con 52 carte immagino.
-Giusto, con tutto il mazzo.
-Quanti angoli, quattro, cinque o più di cinque?
-Qualche volta anche con sette, ma io preferivo cinque giocatori soltanto, rispose Jacopo.
-Giochiamo anche noi la teresina, ma preferiamo il poker internazionale a 36 carte e cinque giocatori al massimo.
Per Jacopo quel problema non era così importante; ricordava di aver giocato il poker addirettura con carte napoletane (meglio chiamarlo "sequenza" in quel caso), di avere giocato in tre in quattro in cinque e di essere stato pronto a giocarlo anche in dieci, nei tempi in cui era assatanato dal gioco, ma adesso quell'accanimento non c'era più e non si può giocare d'azzardo tanto per reggere il posto a qualcun altro, né tantomeno per farsi spillare quattrini. Si sarebbe trovato come quei pivellini che si mettevano a sedere al tavolo emozionati e tremanti sognando vincite e scale reali, e che venivano regolarmente spennati come polli e sbattuti fuori a pedate in culo.
-Non credo che potremo fare molto insieme, disse guardandoli in faccia uno per uno; l'entusiasmo non c'è più, la rabbia di vincere nemmeno e a me non è mai piaciuto stare a guardare gli altri seduti che giocavano.
Sembravano molto delusi.
-Schade, disse Pik Queen, peccato! Pensare che noi organizziamo ogni quindici giorni dei tornei con quattro, cinque e a volte ancora più tavoli di giocatori, dove i migliori di ogni tavolo si sfidano alla fine in un'unica notte di fuoco. È sempre stato molto emozionante: c'è gente che si gioca fino all'ultimo Pfennige, c'è chi sviene, c'è chi metterebbe in gioco sua sorella come posta, e queste sono le situazioni più emozionanti, quelle che danno le scariche di adrenalina più forti. Non ne sente proprio nostalgia?
-No.
Secco e imperioso gli era uscito quel monisillabo dalla gola, ché un poco se ne stupiva.
-È un vero peccato, fu il commento di Karo Jack mntre gli altri assentivano gravemente.
Elena ci aveva assicurato che avremmo trovato qui un'esplosione di entusiasmo da parte sua.
Elena? La chiamava per nome e probabilmente le dava del tu, forse palpeggiandola qua e là mentre discorreva con lei.
Jacopo guardò Karo Jack attentamente: il classico lupo mangiadonzelle il nostro Joachim, pensò, non bello in viso ma grifagno, quello che manda le femmine in delirio; e poi un fisico da atleta certo non paragonabile al suo, che anche prima del ruzzolone per la scala ghiacciata aveva mollato un po' dappertutto, guarda la pancia tanto per dire e le natiche che gli si afflosciavano dentro le mutande, per non menzionare altro per l'amor di dio. Gli si contrasse lo stomaco in un cieco impulso d'ira.
Che diavolo poteva essere quella roba adesso? Gelosia o voglia di combattere ancora? Non se lo riusciva a immaginare, ma qualcosa gli rodeva dentro e adesso doveva andare a vedere cosa fosse, come al poker quando hai tre assi, i maledetti tre assi pagatori perché non ti riesce di buttare le carte con tre assi in mano, mai, devi andare a vedere e quasi sempre pagare, è la regola, il destino di chi ha tre assi tra le sue carte. 
-Farò un torneo dei vostri, ma soltanto uno, disse alzando la voce per sovrastare il coro di osanna  che si stava levando da quel gruppo che adesso gli appariva così ostile. Non più d'uno, confermò, ma certamente mi troverò al tavolo finale e spero che ci sia qualcuno di voi.
-Lui di sicuro, disse Pik Queen additando Karo Jack; lui è il più forte di tutti e vince quasi ogni torneo.
-Proprio lui volevo, disse Jacopo acido.
-Elena mi ha detto che lei è un giocatore molto forte e molto ostinato, disse Karo Jack.
Come dire: conosco il tuo punto debole, il furore dell'ostinazione, il voler continuare malgrado tutto, quello che rovina la maggior parte dei giocatori dilettanti come te.
Quante cose ti ha detto Elena, pensò Jacopo, ma lei non è mai stata presente quando io giocavo, ignora la mia glaciale freddezza e conoscendomi non la suppone assolutamente. Invece è così: al tavolo verde con cinque carte in mano io mi trasformavo, e nessuno  ai miei tempi ha mai sognato di darmi del giocatore dilettante.
Esplose in una risata. Gli era venuta su così bene e spontanea che gli era sembrato un delitto non sparargliela in faccia.
-Benissimo, disse Karo Jack, sarà un piacere azzannarci.
-Vedo che ci siamo capiti, disse Jacopo. Adesso però non vi dispiaccia, ma vorrei riposare un po'.
Si meravigliò lui stesso di quella brusca conclusione, ma non gli andava più di vederli e di sentirli parlare. I quattro si accomiatarono senza mostrargli alcun risentimento. Comunque tanti complimenti a Elena: era riuscita a rovinargli la giornata senza neanche muoversi dal suo letto di influenzata, senza nemmeno toccare il telefono per chiamarlo, forse addirettura senza neanche pensare a lui.

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Karo Jack è la definizione in tedesco del fante di quadri.
Pik Queen è la regina di picche.
Herz King è il re di cuori.
Kreuz As è l'asso di fiori.

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mercoledì 1 novembre 2017

15.1

Sto rileggendo un mio romanzo inedito per mia decisione.
È la storia di uno scrittore di successo che improvvisamente subisce il blocco dello scrittore e non riesce a concludere il suo romanzo. Si tratta quindi di un romanzo nel romanzo. C'è naturalmente l'opera  incompiuta con continue interpolazioni, che sono i commenti che lo scrittore, esasperato e provato dalla sua incapacità di concludere, scrive di tanto in tanto commentando e spesso amaramente prendendo in giro i suoi personaggi e quindi se stesso.
Ho trovato ieri sera questo brano che mi è piaciuto -non ricordavo poi tanto di un romanzo finito un paio di anni addietro- e voglio postarlo adesso. 
Così, tanto per cambiare, dopo poesie e veleni politici.

Si può conoscere l'infinita società umana con tutte le sue miserie alzandosi prestissimo al mattino, prima dell'alba è il mio consiglio, e andandosene a piedi per il centro di una qualsiasi città di almeno duecentomila abitanti.
Prima di tutto infilarsi nei vicoli, guardando in tutti i portoni, in tutte le insenature, gli angoli, i gomiti, ovunque sia possibile un riparo, specie se ci sono portici o comunque gallerie coperte. Si scopre il mondo dei senzatetto, il mondo dei pidocchi in marcia alla conquista del paradiso.
Nella città che conosco io c'è un vicolo cieco chiamato vicolo cieco dei vagabondi, anche comunemente chiamato il vicolo dei barboni. C'è di tutto e turatevi il naso prima di entrarvi, altrimenti vomitate addosso a quei poveracci. Ma attenzione: sono visibili fino alle cinque e mezza, perché alle sei sono spariti tutti. Dove diavolo vanno costoro?
Spariscono e basta.

Spostiamoci adesso al centro, al crocicchio tra due vie principali, la Kaiser Strasse e la Karl Strasse, il cuore della città dopo le otto, ma adesso sono le sei passate da poco. Non bisogna aver fretta, basta essere ben coperti, un giubbotto di nappa leggera va sempre bene perché qui è umido e freddo a quest'ora fino a giugno inoltrato, avere un thermos con caffè bollente d'inverno o con una limonata fresca d'estate, e tanta pazienza.
Prima o poi escono fuori, dapprima timorosi poi sempre più audaci, sicuri di sé, sprezzanti: è il popolo delle mezze tacche, dei reietti, degli storpi, dei nani, che saltabeccando, ruzzolando con andature a sghimbescio, correndo ognuno come la natura ingrata gli permette, in pochi minuti brulicano per strada come rivoli di pus e di acqua lercia.
Scompaiono come topi e non lasciano alcuna traccia del loro passaggio.

Poco prima delle sette le strade sono a disposizione dei normali, dei monotoni, dei senza difetti apparenti, della noia.
Nessuno sa come i nani gli storpi i reietti tornino a casa, attraverso quale strada, quale percorso, perché neanche a rimanerci ventiquattro ore su quell'incrocio non li si vedrà più tornare, ma solo poco dopo le sei di nuovo uscire e invadere per pochi minuti quel territorio proibito come figurine animate di un caricaturista sadico e un poco pazzo.
Sono andato una mattina dietro l'altra per tre giorni ad aspettarli e per un'ora per un minuto per un attimo sono stato uno di loro, un poco barbone, un poco storpio, un miserabile comunque, e ho vissuto una pompata di sangue di vita strappata al nulla di chi niente chiede e niente dà, per poi tornarmene al mio ricovero ben protetto con tanta nostalgia per quel minuto rubato di pienezza umana.

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